«Non dimentico quei vigili urbani massacrati»

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«Non dimentico quei vigili urbani massacrati»

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Giuseppe Turi, testimone della strage nazista a Barletta

«Quei cadaveri li rivedo ancora oggi». Giuseppe Turi, 83 anni, è cittadino di Molfetta. Il 12 settembre 1943, data del massacro degli 11 vigili urbani e 2 netturbini fucilati il palazzo delle poste di Barletta, Giuseppe aveva 11 anni e viveva a Barletta, con sua nonna. Assieme a Ruggiero Graziano – presidente dell’ANMIG Barletta – andiamo a trovare il signor Turi a Molfetta, per ascoltare la sua testimonianza. A questa strage, si aggiungano altri 3 militari e 22 civili uccisi, 41 ciitadini feriti, ad opera dei paracadutisti tedeschi del “Fallschirmjager Reggiment”, tra il 12 e il 29 settembre 1943, a Barletta.

Signor Turi, cosa faceva a Barletta, nel settembre del 1943?
«Vivevo a Barletta con mia sorella, presso la mia nonna paterna, Maria Antonia Magarelli, in via S. Lazzaro. Eravamo orfani di madre, mio padre era stato costretto ad emigrare in Argentina, a Buenos Aires. In quei giorni, andavo a bottega da un calzolaio, Giuseppe Gissi. L’8 settembre ci fu l’armistizio e festeggiammo tutti, ma il 12 settembre, tutto cambiò».

Cosa successe?
«Il 12 settembre, il calzolaio mi mandò a comprare il giornale in un edicola nei pressi di via Consalvo da Cordova. Mentre sfogliavo il giornale, sentii in cielo rombi di aerei, guardai in alto e riconobbi aerei militari. Ad un tratto, sentii un’esplosione provenire dal quartiere S. Giacomo. Mi diressi verso il corso, e vidi da lontano l’orologio di S. Giacomo centrato in pieno da un colpo di cannone. Rimasi a fissare l’orologio e dopo poco, vidi provenire da Corso Umberto un carro armato, seguito da soldati tedeschi. La gente scappava e si rifugiava in casa. Io non potevo tornare casa, avevo di fronte i soldati tedeschi. Feci un largo giro, spinto dalla curiosità. Mi diressi verso piazza Roma, udivo in lontananza alcuni spari ed esplosioni».

Dove si diresse?
«Mi diressi verso via G. De Nittis, le strade erano deserte, incontrai un ragazzo poco più grande di me, che mi disse:” Attento, ci sono i tedeschi in giro!”. Ci rifugiammo in un portone su quella via (al civico 15, nda), mentre si udivano altri spari. Accanto al portone dove eravamo nascosti, c’era la caserma dei vigili urbani. Sentimmo partire uno sparo proprio dal portone della caserma. Ad un tratto, vedemmo arrivare un gruppo di paracadutisti tedeschi, che fecero irruzione nella caserma, facendo uscire con le mani alzate tutti i vigili urbani presenti all’interno. Mentre eravamo nascosti, vidi i paracadutisti tedeschi condurre i vigili a ridosso del muro del palazzo delle poste, alcuni di loro piangevano, altri, tra cui il vigile Falconetti (che conoscevo, in quanto era cliente del calzolaio dove lavoravo), mostrava loro delle carte, forse erano documenti di identità. I vigili cercavano di parlare coi soldati tedeschi, che urlavano solamente nella loro lingua, ricordo una parola “Schnell!”. Non ci fu nulla da fare per quegli uomini».

Cosa vide?
«Vidi un paio di soldati che sistemavano una mitragliatrice a terra, con un treppiede, di fronte al muro del palazzo delle poste. Il gruppo di vigili urbani fu messo al muro. Uno dei vigili (Francesco Gazia – nda), si staccò dal gruppo e fuggì. Aveva in mano una bottiglia di latte, la sua fuga fu bloccata sul retro del palazzo della posta: fu colpito alle spalle dai colpi di pistola di un soldato tedesco. Intanto, la mitragliatrice faceva strage dei vigili urbani. Finita la mattanza, i soldati tedeschi se ne andarono, imboccando via F. D’Aragona».

Andati via i soldati tedeschi, lei cosa fece?
«Il ragazzo con cui mi ero nascosto, se l’era fatta sotto dalla paura, io mi avvicinai ai cadaveri. Al momento, non mi rendevo conto, mi sembrava la scena di un film, non dimentico quei vigili urbani massacrati, quei cadaveri li rivedo ancora oggi. Alcune persone si avvicinarono, comprese alcune donne, una di esse (Corposanto Lucia, nda), urlò:”C’è un uomo vivo, tra i morti!”. Alcuni uomini, presero coraggio e spostarono i cadaveri, sotto i quali c’era un vigile urbano ferito (Francesco Paolo Falconetti, nda). Arrivò un carretto, che caricò i cadaveri e li portò via. Vedevo persone che si avvicinavano e parlavano tra di loro, ma non ascoltai i loro discorsi».

Signor Turi, riuscì a tornare a casa, in via s. Lazzaro?
«Si, certo. Mia nonna, non vedendomi tornare, si era preoccupata. Per punizione, fui picchiato da mio zio. Vicino casa mia, una donna (Francesca Ormas, nda) fu sparata al volto, mentre – nascosta nel portone di casa – osservava i soldati tedeschi lungo la strada. Le persone si rifugiavano in casa e i soldati sparavano nei portoni, per fare in modo che la gente non uscisse di casa. Qualche settimana dopo la strage, arrivarono gli alleati. Vedevo questi camion, colmi di soldati inglesi e americani, tra cui tanti soldati neri. Alcuni palazzi prestigiosi della città, furono requisiti dagli alleati e adibiti ad uffici militari».

Dopo la guerra, cosa fece?
«Fui mandato in seminario, presso la “Divina Provvidenza” di Don Pasquale Uva, a Bisceglie, dove ho studiato per 3 anni. Un giorno, il seminario fu chiuso e i seminaristi furono trasferiti. Sarei stato trasferito anch’io, ma intanto, mio padre, che lavorava come stuccatore a Buenos Aires, richiamò me e mia sorella, per raggiungerlo. Mio padre si era sposato nuovamente, e aveva avuto altri figli. Mia sorella partì per prima. Nel 1948, mi imbarcai da Genova, con la nave “Anna Costa”, alla volta di Buenos Aires».

Come visse in Argentina?
«Arrivato a Buenos Aires, trovai un mondo nuovo. Andai a vivere nel quartiere “La Boca”, di fronte lo stadio “La Bombonera”, con mio padre, mia madre, i miei fratelli e mia sorella. Imparai alla svelta la lingua spagnola e seguii una scuola serale di tipografia, specializzandomi linotipista. In seguito, dopo un apprendistato presso la tipografia “Palumbo” – appartenente ad un emigrato molfettese della Boca – ho lavorato presso una grande casa editrice, la “Peuser”, presso il quotidiano “Clarìn” e presso la Zecca di Stato argentina. Vivevo bene e guadagnavo bene. Mi sono sposato con Filomena Petruzzella, da cui ho avuto tre figli. Nel 1963, per motivi famigliari, siamo tornati a Molfetta, dove ho continuato a lavorare presso altre tipografie: “Rizzi – Delre” di Barletta e “Cressati” di Bari, fino alla pensione».